Facciamo chiarezza, prova a darci la tua definizione della professione grafica e come si è evoluta negli ultimi anni.
Il grafico è principalmente un mediatore di linguaggi. Traduce messaggi complessi in sistemi visivi che ne facilitino comprensione e memorizzazione, svolge una funzione ‘abilitante’ rispetto alla capacità di azione e partecipazione di ogni cittadino. Non parlo solo di composizioni visuali, ma del complesso di linguaggi che sono al centro del processo di comunicazione. Visivo, verbale, tipografico, iconografico, simbolico, sia in chiave statica che dinamica. È opportuno aggiungere che per il grafico oggi è opportuno definirsi piuttosto, come abbiamo fatto da anni nella nostra Associazione, designer della comunicazione, includendo nel significato della parola design proprio la necessità di poter progettare l’intero processo comunicativo, dall’emittente al ricevente e viceversa, includendo anche le variabili di tipo relazionale e interpretativo che stanno al centro dei meccanismi percettivi che sono ovviamente influenzati dai contesti e dalle caratteristiche culturali in cui il processo di comunicazione ha luogo.
Come si articolano sul piano professionale le ‘varianti’ del grafico?
Oggi i grafici o designer della comunicazione operano in ambiti anche molto diversi fra loro, basti pensare all’esplosione avuta negli ultimi 15 anni nel digitale. Il grafico opera come progettista nel campo dell’editoria, nel progetto delle identità visive sia applicate alle imprese che alle istituzioni o ai territori, nella progettazione visiva dell’informazione (information design) o nella visualizzazione dei dati, opera come designer di interfacce-utente applicandosi sia al mondo delle piattaforme digitali che degli ambienti con particolare attenzione alle variabili che definiscono il grado di accessibilità per gli utilizzatori, e ancora si occupa della progettazione grafica applicata a sistemi museografici o espositivi in genere, ma dovremmo citare ancora innumerevoli campi di applicazione, dal disegno del tessuto al packaging industriale e via dicendo. È importante chiarire che sempre di più il lavoro del progettista grafico si definisce in relazione ai contesti in cui si applica. A tale proposito, abbiamo messo a fuoco alcuni grandi ambiti di pratica della professione in occasione della mostra che AIAP ha curato in Triennale lo scorso anno, Il Mestiere di Grafico—oggi: in che rapporto vive la nostra professione rispetto al mondo della formazione; in quale rapporto vive rispetto alle forme di impresa attraverso cui molti giovani progettisti si organizzano per operare; quali ambiti definiscono quella che abbiamo chiamato ‘grafica artigiana’, di chi sceglie metodi di lavoro analogici e capaci di diventare strumento di contatto con le comunità; quali invece sono i campi di applicazione della ‘grafica programmata’, in altre parole di chi sceglie di progettuale graficamente attraverso la programmazione di un codice.
Qual è la differenza fra grafico e art director?
È una categorizzazione che non amo, soprattutto alla luce del mio lavoro di docente del progetto in diverse scuole di livello universitario. Attraverso una categorizzazione di questo tipo si vuole il grafico chiuso nell’idea di un mestiere artigianale, prestatore d’opera e subordinato, nel migliore dei casi affermato come autore. L’art director è invece colui che coordina il lavoro degli altri, capace di guidare la coerenza del linguaggio visuale prodotta dai suoi collaboratori più che di operare direttamente. Ma sono definizioni che ritengo superate. Oggi ogni progettista, anche lavorando come free lance, è chiamato a partecipare a una forma di lavoro che si sviluppa sempre più spesso in forma collaborativa e multidisciplinare. Il designer contemporaneo deve saper leggere i contesti a cui il progetto si applica e non ricercare una mera soluzione di stile, e deve poter ragionare sulle forme visuali e relazionali che l’ecosistema di progetto stabilisce con i suoi utilizzatori.
Qual è la strada migliore per avvicinarsi al mestiere del grafico durante gli anni delle superiori?
Penso sia importante cominciare a interessarsi alla storia della professione e ai maestri che l’hanno segnata. Ci sono letture fondamentali per conoscere la storia della cultura del progetto nel nostro paese e a livello mondiale. A partire da alcuni ‘manifesti’ di etica e affermazione disciplinare che l’hanno influenzata come il First Thing First promosso da Ken Garland nel 1964 e per quanto ci riguarda da vicino, la Carta del Progetto Grafico promossa da AIAP nel 1989. I testi da citare sarebbero moltissimi ma mi limito a quello che considero un libro imperdibile, che è Il mestiere di Grafico di Albe Steiner edito da Einaudi. È importante porre attenzione alla programmazione di mostre e conferenze che alcune istituzioni culturali programmano abitualmente, parlo di Triennale Milano, del neonato Museo del Design di ADI e del Centro di Documentazione del Progetto Grafico di AIAP sempre a Milano, della Tipoteca di Cornuda in provincia di Treviso, del Mart a Rovereto, del MAXXI di Roma e via dicendo. Senza mancare alcune eccellenze ‘minori’ come il MAGMA (Museo Archivio Grafica e Manifesto) di Civitanova Marche. Come AIAP pubblichiamo ogni anno un programma di conferenze e workshop sui diversi aspetti della professione. Collaboriamo stabilmente con Polidesign per la costruzione di prodotti formativi sugli aspetti più avanzati del lavoro del designer della comunicazione. La nostra associazione pubblica l’unica rivista che parla di grafica in Italia, Progetto Grafico, e dedica una specifica categoria associativa al mondo degli studenti.
E dopo le superiori quali studi di grafica si possono fare?
Il mondo dell’alta formazione del progetto in Italia offre oggi diverse possibilità. Comincio da una segnalazione di parte, essendo docente in questa scuola da 16 anni, indicando l’ISIA di Urbino come una delle punte di eccellenza che il nostro paese offre nel campo della grafica editoriale. In relazione a interessi specifici e luoghi di residenza c’è un ampio spettro di possibilità, che va dal Dipartimento di design del Politecnico di Milano al corso di Design e Comunicazione del Politecnico di Torino, dal corso di Design della Comunicazione allo IUAV di Venezia inserito all’interno della Facoltà di Architettura al Corso di Design della Sapienza di Roma, dal Corso di Design e Comunicazione dell’Università Vanvitelli di Napoli ai corsi di Design al Politecnico di Bari e all’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Bisogna analizzare con pazienza e in profondità i piani di studio di molte Accademie italiane, Venezia, Bologna, Urbino, Perugia, Roma, Napoli, Palermo, Catania, tra le tante che ormai stabilmente hanno attivato corsi e dipartimenti dedicati al design e alla comunicazione visiva. Accanto alle università e accademie pubbliche, è andata progressivamente crescendo l’offerta della formazione privata e professionalizzante. in Italia scuole come lo IED hanno una grande tradizione alle spalle, e nel tempo se ne sono aggiunte molte altre, come la NABA di Milano o la RUFA a Roma o scuole-laboratorio con corsi annuali come la Bauer di Milano solo per citarne alcune.
È meglio studiare da grafico in Italia o all’estero? Che cosa ne pensa?
Il mio consiglio è di cominciare gli studi in Italia, e magari immaginare un completamento magistrale all’estero. Il nostro paese ha una storia artistica e del design sufficientemente sperimentale, soprattutto se ci riferiamo al periodo che arriva fino agli anni ’80. Perdiamo forse (ma non è vero del tutto, anche se il discorso sarebbe complesso e lungo) la sfida con la contemporaneità, ma non perché ci manchino capacità e talento, piuttosto perché siamo schiacciati da una profonda incapacità di governo politico. Manca una vera consapevolezza del paese nel difendere un’identità culturale che non sia solo classica e storica. Fare esperienza di studio all’estero significa fare esperienza diretta di un ecosistema sociale in cui la cultura, anche fortemente sperimentale, è considerata asse portante del valore sociale e economico di un’intera collettività. Poi, però, è importante tornare.
Esperienze come Design in Town possono aiutare un giovane ad avvicinarsi al mondo della grafica?
Accoppiare alla formazione classica occasioni di apprendimento non formale in chiave laboratoriale, svolti in contesti ambientali e territoriali fortemente caratterizzati, rappresenta a mio avviso un compendio indispensabile per ogni giovane designer. Specialmente per allenare la propria umanità e capacità di relazione, per imparare a rispondere all’inaspettato e sapersi confrontare con quel grande giacimento di conoscenza non istituzionalizzata che è la comunità.
In quali contesti lavora un grafico?
Solitamente la prima collocazione professionale – e anche quella che consiglio – è all’interno di uno studio. Sperimentare da subito le proprie capacità e le competenze acquisite durante il proprio periodo di studi rappresenta un processo fondamentale di apprendimento. Molto importante è però scegliere ambienti di lavoro che siano capaci di difendere il valore del progetto e un rapporto con il committente non passivamente subordinato, in questi casi non si impara niente. In generale, il grafico e il designer della comunicazione si trovano a lavorare in ambienti molto diversi. Una nota positiva viene dalle possibilità di impiego nelle istituzioni pubbliche, che negli ultimi anni hanno assorbito il 10% dei neolaureati nel campo del progetto, includendo figure che spesso sono indicate come ‘designer di prossimità’ ma che si riferiscono in concreto a designer di processi di tipo comunitario, inclusivo, di facilitazione di accesso ai servizi pubblici. Sì, anche questi sono gli ambiti in cui può trovare lavoro un grafico. Ci sono anche ottime possibilità di impiego all’interno delle imprese, sia pubbliche che private, l’esplosione della comunicazione in chiave social richiede grande produzione di contenuti e la necessità di produrre format visivi sia statici che dinamici è sempre più pressante. Altra strada da valutare attentamente è quella dell’autoimpiego, che può avere forme diverse, dall’apertura di una partita iva individuale alla formazione di collettivi in forma di cooperativa. È la strada che molti giovani designer scelgono, soprattutto se attratti da una forma del lavoro che consenta loro di operare in stretto rapporto con la comunità di residenza, anche in piccole città. La flessibilità che alcune forme di organizzazione amministrativa consentono permette di sposare necessità di sostentamento economico e tempo da investire in ricerca. Alcuni dei casi che abbiamo presentato in Triennale a Milano vanno proprio in questa direzione.
Quali competenze professionali richiede oggi il mercato a un giovane grafico?
Ribadisco, non basta essere capaci di ‘fare’ direttamente, bisogna saper lavorare in forma allargata e avere capacità di dialogo con altre discipline per riuscire a dare al proprio lavoro la possibilità di rispondere ai temi complessi che sempre più spesso ci vengono posti. In tutti i progetti che utilizzano il mezzo digitale oggi non basta più sapere usare programmi di editing grafico tradizionale, serve piuttosto saper programmare, utilizzare lo strumento del coding per tutte le progettazioni che riguardano la visualizzazione del dato o in generale la grafica generativa.
Come si trova il lavoro da grafico dopo gli studi universitari?
Per prima cosa bisogna pretendere che alla fine del proprio percorso di studi ci sia un confronto franco con uno o più docenti per avviare un lavoro di sintesi di quanto realizzato a scuola che possa alimentare la composizione e la redazione di un portfolio solido. Consiglio di sfruttare il progetto di tesi come occasione per avviare relazioni che possano poi trasformarsi in opportunità di impiego. Nella ricerca del lavoro premia essere aperti a collaborazioni che ci aiutino ad allargare le nostre visioni e a intuire progressivamente su quali aspetti del processo di lavoro possiamo avere più cose da dire. Bisogna sforzarsi di affiancare ai progetti che facciamo per cominciare a guadagnare, e che spesso provengono da cerchie di conoscenze vicine, anche progetti di ricerca in chiave speculativa che ci permettano di affinare capacità progettuali in direzioni e linguaggi che molte delle prime occasioni di lavoro solitamente non offrono. Infine, partecipare a conferenze e presentazioni di professionisti affermati per avere una testimonianza diretta degli ecosistemi di lavoro odierni, provando anche ad avere colloqui personali con alcuni di loro. Ricordo che quando mi decisi a iscrivermi all’ISIA di Urbino, ebbi l’occasione di incontrare Daniele Baroni e gli chiesi spudoratamente di andare a trovarlo a casa sua a Milano per farmi raccontare che cosa significasse fare il grafico.
Quali soft skills bisogna avere per essere un buon grafico?
Le prime e più importanti riguardano la capacità di non alimentare una cultura eccessivamente specialistica. Ricordo che Michele Provinciali a noi studenti all’ISIA di Urbino, consigliava di non leggere libri di grafica, ma unicamente Tristi tropici di Levi-Strauss. Consiglio di riguardare con attenzione il lavoro di direzione artistica e progetto dell’house organ Imago, svolto da Provinciali a partire dal 1960 per la Bassoli Fotoincisioni e ripubblicato di recente in un volume curato da Giorgio Camuffo e pubblicato da Corraini. Prima di allenare le proprie capacità di presentazione e immagine pubblica, bisogna alimentare la propria cultura di base per evitare di parlare a vanvera e in modo autoreferenziale. Bisogna diventare veri produttori di cultura. Purtroppo assistiamo a uno scenario della professione in cui molti giovani si limitano a fare ricerche in modo superficiale e spesso solo accedendo a piattaforme digitali come Behance o Pinterest. Il risultato è un’omologazione stilistica preoccupante, in cui la capacità di concettualizzazione e disegno, la volontà e la possibilità di avere delle cose da dire sono sempre più deboli, quando non totalmente assenti.
Per fare il grafico servono talento, abilità tecnologiche, olio di gomito e cultura. Ci può dire il suo cocktail perfetto?
La domanda è un po’ retorica, indica già tutte caratteristiche che sono in diversa misura indispensabili. Preferisco rispondere indicandone una che qui non vedo, ovvero l’umiltà. Per fare questo lavoro bisogna avere l’umiltà di ammettere a se stessi di non sapere. È un lavoro in cui le semplici conoscenze disciplinari e tecniche rappresentano una minima parte della dotazione necessaria. Serve allenare la propria capacità di visione, vedere dove gli altri non vedono, nutrire la preparazione storica e culturale con lo studio, non solo al tempo della scuola, ma per tutta la vita. Molti dei miei studenti hanno la pretesa di sapere già, sapere in cosa sono bravi, sapere quale è il carattere più trendy da usare, sapere come affrontare un progetto. Il mio lavoro è spingerli a muoversi su terreni non confortevoli, aiutarli a scoprire quanto è importante partire con la consapevolezza, anzi la pretesa di non sapere. Consiglio in assoluto la lettura di Specie di spazi di George Perec, un autentico genio della letteratura, per capire l’utilità dell’essere umili e per portare al limite – e quando ci si riesce oltre quel limite – la propria capacità di racconto.
Chi era il suo grafico (o i suoi grafici) di riferimento quando era giovane?
Sono quelli che ho avuto come docenti e guide all’ISIA di Urbino, parlo di Michele Provinciali e Albert Hohenegger. Studiando a Urbino avevamo una sorta di venerazione per il lavoro di Albe Steiner, e a seguire per il mondo che aveva orbitato intorno allo Studio Boggeri nella Milano del primo Novecento. Negli anni ho avuto modo di conoscere il lavoro di figure come Massimo Vignelli, Giacomo Iliprandi, Bob Noorda e Bruno Monguzzi. Nel 1984 partecipammo alla Biennale della grafica di Cattolica e lì scoprimmo la dimensione militante e contemporanea rappresentata dal fenomeno della grafica di pubblica utilità. I nomi erano quelli di Giovanni Anceschi, Giovanni Lussu, Massimo Dolcini, Mario Cresci, Roberto Pieracini, Gianfranco Torri e molti altri.
E quali se lei fosse giovane oggi, quali sarebbero?
In Italia ci sono autori che si sono affermati anche internazionalmente negli anni e con cui ho la fortuna di essere amico come Leonardo Sonnoli, ma insieme mi sento di citare Sergio Menichelli di Studio FM, Mauro Bubbico, Studio Obelo che fa un interessante lavoro di ricerca anche in chiave pedagogica, il collettivo CAST per il disegno tipografico. A livello internazionale ci sono figure che svolgono un lavoro interessante dal punto di vista dell’impegno etico e professionale, faccio l’esempio di Ruben Pater o Zak Kyes e ancora mi sentirei di citare Radim Pesko per la progettazione tipografica. Per quanto riguarda i più giovani consiglio di tornare a guardare i nomi che avevo inserito nella mostra già citata in Triennale.
In generale in questo periodo non sono molto attratto dai contemporanei che trovo tutti piuttosto omologati (non vuole essere un giudizio generalizzato), però sono più interessato alle tante figure protagoniste del pensiero radicale degli anni 70 in Italia. Il livello di sperimentazione espresso in quel periodo rimane ancora oggi insuperato.
Ci può consigliare 3 libri che lei reputa fondamentali per chi vuole avvicinarsi al mondo della grafica?
Uno l’ho già citato prima. Poi ci sono libri ‘vademecum’ che vanno assolutamente letti, come What is a designer di Norman Potter, Abecedario di Sergio Polano e Pierpaolo Vetta, Tipografia moderna di Robin Kinross, The Grid System di Josef Muller-Brockmann, La forma del libro di Jan Tschicold e Arte e percezione visiva di Rudolf Arnheim.
Ci può consigliare un film che giudica fondamentale per chi sta pensando di diventare un grafico?
Devo indicarne più di uno. Parto da Metropolis di Fritz Lang (1927), può considerarsi il primo film di proto-fantascienza, pieno di simbolismi e figurazioni legati strettamente alle avanguardie artistiche del periodo. Poi ci sono alcuni piccoli tesori, fra cui segnalo Why man creates di Saul Bass (1968). Di recente sono stati realizzati due documentari molto interessanti: Design is One, sul lavoro di Lella e Massimo Vignelli, diretto da Kathy Brew e Roberto Guerra (2012); ed Helvetica diretto da Gary Hustwit (2007), che fa parte di una trilogia dedicata al mondo del design. Sopra tutti si staglia Brazil di Terry Gilliam (1985), narrazione grottesca sulle distopie di un futuro immaginato in chiave fantastica.
Nato a Perugia nel 1964, Marco Tortoioli Ricci si è diplomato all'ISIA di Urbino nel 1987, dove è stato allievo di Michele Provinciali e Albert Hohenneger. Dal 1989 al 1992 ha lavorato come art director presso lo studio Dolcini associati di Pesaro. Nel 1992 ha fondato a Perugia lo studio Bcpt associati, con il quale ha sviluppato progetti di identità e branding aziendale. Nel 2003 ha fondato la cooperativa CoMoDo per realizzare progetti di formazione, ricerca, comunicazione etica e innovazione sociale. Si occupa della progettazione di sistemi di identità visiva e design dei sistemi, con particolare riferimento alla comunicazione dei territori e dei luoghi. È docente di Metodologia del progetto all’ISIA di Urbino, coordinatore del biennio magistrale in Brand design dei territori all’ABA Perugia e docente di Design presso il Dipartimento di Ingegneria civile e ambientale dell’Università di Perugia. Dal 2018 ricopre la carica di Presidente nazionale di AIAP Associazione italiana Design della Comunicazione visiva.
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